Riformismo e Massimalismo

1.

In un'intervista ad un settimanale, Massimo D'Alema esprime sinteticamente il "disincanto" a partire dal quale ha preso origine il riformismo attuale di cui egli è un rappresentante convinto. Riporto testualmente due risposte:

"Perché la sinistra non è più capace di proporre un suo sogno? Perché siamo stati duramente vaccinati, perché il grande sogno che ha accompagnato la nostra giovinezza è finito nel gulag".

Possibile che non ci sia altro? Che non sia sopravvissuto neppure un po' di anelito all'uguaglianza? Non siamo uguali e non possiamo più sostenerlo. Oggi possiamo onestamente dire che cercheremo di ridurre le disuguaglianze, di dare a tutti le stesse opportunità. Ma il nostro progetto è comunque più suggestivo di quello della destra. Pensi solo alla forza evocativa della pace."

Non si potrebbe esprimere meglio la deriva di un pensiero disincantato, che assegna al riformismo l'unico obiettivo di essere un po' più equo della destra. Nella recensione al libro di D'Alema Oltre la paura) ho già analizzato la matrice (psicoanalitica più che riflessiva) del disincanto. D'Alema ha risentito del crollo del Muro di Berlino come tutti i comunisti di partito rimasti fermi per decenni ad un'alleanza strategica con l'Unione Sovietica, vissuta miticamente come antesignana di un mondo nuovo. Lo strappo di Berlinguer, estremamente significativo, è stato tardivo; il risveglio dal sogno durissimo per i comunisti ortodossi. Se al Partito Comunista si può imputare una colpa, essa va identificata nell'essere rimasto poco permeabile al pensiero marxista occidentale, critico nei confronti del regime sovietico sin dagli anni '40 del secolo ventesimo. Esso è stato ossessionato sempre troppo dalla necessità di schierarsi con uno dei due poli della Guerra Fredda per dare spazio, allorché sarebbe stato necessario, ad una terza via che recepisse le istanze libertarie e umanitarie intrinseche al pensiero di Marx. Se ha sviluppato al suo interno degli anticorpi, questi si sono espressi o attraverso l'abbandono del partito da parte di alcuni intellettuali in seguito all'invasione dell'Unione Sovietica dell'Ungheria (nel 1956) e della Cecoslovacchia (nel 1964), o attraverso una fronda (il gruppo del Manifesto) troppo incline alla suggestione del radicalismo sessantottino.

Preso atto dell'abbaglio, i comunisti più seri e più colti si sono ritirati dalla militanza ripiegandosi nell'amarezza e nel pessimismo, i più adattivi si sono riciclati come esponenti di una Terza Via che integrasse i valori del liberalesimo con quelli del socialismo, sormontando d'emblée la contrapposizione storica tra le due ideologie. Non dubito che questa conversione, dovuta alla difficoltà di abbandonare il campo della politica praticato con passione, sia avvenuta in buona fede. I suoi esiti culturalmente e politicamente mediocri li ho analizzati in due articoli sulla Terza Via. L'intervista di D'Alema conferma questo giudizio.

Il sogno finito nel gulag è stato quello di chi ha identificato nel regime sovietico l'espressione propria del comunismo, non tenendo sufficientemente conto delle aspre critiche rivolte a quel regime da un numero rilevante di marxisti occidentali (da Korsch a Marcuse). La fine del sogno segnala non già l'impossibilità di rilanciare un progetto comunista, bensì la sterilità del fideismo che comporta la rinuncia al pensiero critico sulla realtà, che è il contributo più prezioso del marxismo alla cultura umana.

Riguardo all'uguaglianza, contestarla su di una base naturalistica - per cui gli uomini in quanto individui sono diversi nelle loro potenzialità - è la scoperta dell'acqua calda. Attribuire a Marx, orgogliosamente conscio della sua superiorità intellettuale e della sua diversità, una banalità del genere significa non averlo letto e o non averlo capito. L'uguaglianza marxista non è di ordine naturale, bensì etico e giuridico: riguarda insomma la pari dignità tra gli esseri umani, che non esclude un accesso alle risorse economiche sulla base del merito individuale. Essa esclude l'appropriazione privata della ricchezza sociale nella misura in cui essa sottrae risorse necessarie a favorire il massimo sviluppo delle potenzialità di tutti i cittadini, o si traduce in forme di sfruttamento di tali potenzailità.

L'approssimarsi delle elezioni europee ha riaperto, tra le forze di sinistra italiane, un dibattito su due anime che, nella storia del socialismo, non hanno mai trovato un punto di mediazione: il riformismo e il massimalismo. Sarebbe lungo ripercorrere, anche solo all'interno del contesto nazionale italiano, la storia di questo conflitto che, dopo la scissione del Partito Comunista dal tronco comune socialista, avvenuta nel 1921, ha prodotto, dal dopoguerra in poi, l'emarginazione dal governo dei comunisti sino alla caduta del muro di Berlino. Basta, ai fini di quest'articolo, ricordare che il nodo insolubile del contrasto verte sul fatto che il sistema capitalistico possa essere politicamente governato in maniera tale da utilizzare l'efficienza economica che esso assicura investendo parte delle ricchezze accumulate in una ridistribuzione che ammorbidisca, senza azzerarle, le disuguaglianze sociali, o che quel sistema implichi contraddizioni intrinseche insolubili, tali che il suo governo non possa prescindere, in una prospettiva di lunga durata, da un progetto di un cambiamento radicale e strutturale che subordini le leggi dell'economia (il mercato) alla soddisfazione dei bisogni sociali. Nell'ottica del riformismo, i principi e i valori socialisti rappresentano un'indispensabile correttivo di un sistema economico che, affidato a se stesso e al libero gioco del mercato, rischia di produrre, al di là dell'aumento della ricchezza complessiva, un imbarbarimento dei rapporti sociali. Nell'ottica del massimalismo, quei principi e quei valori non potranno mai realizzarsi compiutamente se non nell'ambito di uno Stato socialista, che dovrebbe fondarsi sul consenso il più largo possibile della popolazione.

I termini politici del contrasto sono assolutamente evidenti. Ma, più di questi, sono in gioco diversi valori culturali.

Il riformismo ritiene che la civiltà borghese abbia prodotto una rivoluzione che si può ritenere insuperabile, nella misura in cui essa ha sancito i diritti universali dell'uomo. Il fatto che questi diritti rappresentino un quadro di riferimento di valore universale, espresso nella sua compiutezza dall'ordinamento democratico, è assunto come un punto di arrivo dell'evoluzione storica. Il problema è realizzarli sostanzialmente, accettando il fatto che la natura umana rimane vincolata ad una motivazione egoistica di base che non può essere trascesa. Ciò significa riconoscere una dialettica storica destinata a mediare all'infinito gli interessi generali e quelli particolari, senza la pretesa di poter pervenire ad uno stato di equilibrio assoluto. Gli interessi particolari, vale a dire il bisogno di affermazione individuale, sono ritenuti le molle motivazionali dello sviluppo economico. Essi vanno politicamente accordati con gli interessi generali, con i bisogni sociali in virtù di un'opera di mediazione che non avrà mai fine. Da questo punto di vista, si tratta dunque di utilizzare il dinamismo capitalistico, che consente la crescita economica, al fine di realizzare una società meno iniqua rispetto a quella che esso tende, attraverso i governi di centro-destra, a produrre.

Il massimalismo ritiene, viceversa, che l'egoismo privato non sia un attributo univoco della natura umana, bensì un prodotto dell'evoluzione storica e culturale. E' innegabile che ogni individuo non può prescindere dai suoi personali bisogni e dai suoi interessi. Ma l'opposizione tra i diritti individuali e gli interessi generali viene ritenuta la conseguenza dell'enfatizzazione del diritto di proprietà privata, che fa di questa un valore assoluto e primario da difendere. Quest'enfatizzazione che, nell'ottica del liberismo, rifiuta qualsiasi limitazione di tale diritto, provoca, secondo il massimalismo, degli effetti univocamente negativi che investono la società, vale a dire: l'accumulo dei capitali verso l'alto della scala sociale, nelle mani insomma di chi già ha, con un conseguente impoverimento relativo dei ceti operai e impiegatizi; la pressione crescente dei capitali sul potere politico per forzarlo a tutelare i suoi privilegi che, al limite, si può tradurre nella subordinazione di quel potere sponsorizzato o nella sua sostituzione con rappresentanti dei ceti privilegiati; la tendenza dei capitali allo sviluppo illimitato del valore, che significa sostanzialmente un progressivo abbandono degli investimenti produttivi a favore di speculazioni finanziarie; la necessità del sistema bancario di prestarsi al riciclaggio di imponenti somme di denaro prodotte da attività criminose al fine di alimentare lo sviluppo capitalistico.

L'unico rimedio, da questo punto di vista, non è più, tranne rarissime eccezioni, il superamento del mercato in nome di una collettivizzazione dei mezzi di produzione, quanto piuttosto un ruolo attivo dello stato nella regolazione dell'attività economica. Questo almeno in una prospettiva di breve e di medio termine, che esclude una rivoluzione economica e sociale. In una prospettiva di lungo termine, il massimalismo implica anche la necessità di scindere il nesso storico tra mercato e capitalismo, superando quest'ultimo. Ciò significa porre dei limiti insormontabili all'attività dei capitali tali per cui il mercato e la crescita che esso produce possano contemperare il guadagno privato con la soddisfazione dei bisogni sociali. In quest'ottica l'individuo, pur libero di affermare se stesso, deve sviluppare un senso di responsabilità sociale: in pratica, accettare che, dipendendo la sua realizzazione anche dall'organizzazione sociale di cui fa parte, essa non può prescindere dai doveri che egli ha nei confronti degli altri.

2.

Posti in questi termini, è chiaro che l'elemento discriminante tra il riformismo e il massimalismo socialista sta nel fatto che il primo accetta la concezione dell'individuo borghese, che associa il merito all'egoismo privato, ritenendo che essa esprime un orientamento di fondo della natura umana, che può essere regolato dallo Stato ma senza alcun obiettivo "ideologico" che ne preveda il superamento; mentre il secondo subordina il successo del suo progetto ad una rivoluzione culturale di grande portata che porti l'individuo a rivendicare il diritto di una piena realizzazione di sé associata alla consapevolezza di essere parte di un tutto - la società - il cui equilibrio, in termini di distribuzione di opportunità, di risorse e di beni, è essenziale.

Il limite del riformismo sta nel fatto che, non contestando gli assunti di fondo della cultura borghese, che sono profondamente radicati nella maggioranza silenziosa, vale a dire nei ceti medi, che rappresentano il piedistallo del potere democratico, esso deve adattarsi allo status quo. Ciò implica che, per cooptare almeno una parte degli elettori moderati, i suoi programmi, soprattutto per quanto riguarda l'economia, devono avvicinarsi sempre più a quelli del centro-destra, rispettare cioè il mito dell'efficienza di cui questo mena vanto, cercando di coniugare in qualche misura questo mito con una redistribuzione minimamente equa delle risorse economiche. Quest'assimilazione, che può portarlo fortunosamente a qualche vittoria elettorale, non sembra potere assicurare al riformismo quella stabilità di lunga data che si richiede per realizzare il suo progetto di una società dinamica ma equa. Esso vince quando il centro-destra commette degli errori clamorosi o si disunisce, ma la vittoria è un intervallo nella gestione di un potere e di un sistema che la maggioranza silenziosa affida più volentieri alle forze conservatrici.

Alla precarietà intrinseca della base elettorale del riformismo socialista, il cui zoccolo duro, paradossalmente, non è la classe operaia bensì una quota rilevante di borghesia progressista e illuminata, occorre aggiungere che il centro-destra ha una grande capacità di farsi carico dei problemi dei cittadini comuni nell'ottica in cui essi li vivono, che è solitamente ristretta al privato, vale a dire avulsa da una capacità di analisi sistemica. Lo slogan della riduzione delle tasse, per esempio, ha un forte impatto propagandistico perché i cittadini associano ad essa la possibilità di un reddito disponibile maggiore. Che l'alleggerimento delle imposte dirette coincida con un aumento di quelle indirette o con la riduzione di servizi sociali che i cittadini devono pagare di tasca propria è un fatto che non è ignorato ma viene sistematicamente percepito con un certo ritardo. Un altro esempio, di grande portata nella nostra società, riguarda la sicurezza personale. Un atteggiamento fermo e repressivo nei confronti della criminalità comune è un cavallo di battaglia del centro-destra, che non comporta alcuna analisi sociologica della devianza criminale. Il riformismo, per quanto possa avvertire la necessità di tutelare i cittadini, non può prescindere da quell'analisi, identificare nella criminalità comune l'indizio di una disfunzione sistemica e farsi carico della sua prevenzione e della riabilitazione dei devianti. Con ciò esso espone il fianco alla critica di lassismo e di utopismo.

Anche il riformismo più cauto e più incline ad assimilare i suoi programmi a quelli del centro-destra non può prescindere dal fatto che il modello di buona società cui esso tende, sia pure nei limiti del sistema capitalistico, richiede una partecipazione sociale che non può darsi se non in virtù di trasformazioni culturali le quali portino il cittadino medio ad adottare un'ottica più comprensiva della realtà economica e sociale rispetto a quella incentrata rigidamente sull'interesse privato.

L'esigenza di una trasformazione culturale, naturalmente, è ancora più pregnante da parte del massimalismo. Esso, infatti, nella misura in cui si fa carico di gestire il sistema introducendo in esso elementi di equità, viene inesorabilmente ad urtare contro la resistenza di coloro che, in conseguenza della redistribuzione, perdono qualche privilegio, e contro quella opposta dalla burocrazia statale. Quest'ultimo aspetto merita un'attenzione che sinora non ha avuto.

L'abbandono da parte dello stato del controllo sull'economia e il suo snellimento sono punti fermi di ogni programma di centro-destra, che riversa sulla sinistra sistematicamente l'accusa di statalismo. Ora, se è vero che l'Unione Sovietica è crollata sotto il peso di un capitalismo di Stato corrotto e inefficiente, non è vero che in Occidente lo Stato si sia edificato per effetto delle spinte di sinistra. Lo Stato borghese è stato il volano dello sviluppo capitalistico sino ad epoca recente, assicurando un sistema creditizio ad esso funzionale, erogando aiuti significativi alle industrie, sviluppando, fino ai limiti della concussione e della corruzione (due facce di una stessa medaglia), l'intreccio tra burocrazia e imprenditoria, assumendo nelle sue fila un enorme massa di impiegati che, in virtù di ciò, sono divenuti piccolo borghesi. Certo, almeno in Europa, esso ha prodotto anche una logica assistenziale, e quindi dispendiosa, tradottasi nel Welfare State. Questa però è stato funzionale ad ammortizzare le tensioni sociali e a favorire l'accesso al consumo di fasce di cittadini sempre più ampie.

Solo di recente, lo sviluppo del capitalismo, globalizzato e rivolto alla valorizzazione del denaro, ha identificato nello Stato un nemico e un fattore frenante. Il centro-destra ha raccolto prontamente le esigenze di questo nuovo capitalismo. In misura maggiore rispetto al riformismo, il massimalismo non può accettare più di tanto lo snellimento dello stato e la riduzione della sua funzione assistenziale, entrambi necessarie al fine ultimo della redistribuzione del reddito. Esso però si trova a fare i conti con una borghesia impiegatizia che non vuole saperne di rinunciare ai suoi privilegi, e la cui mentalità oppone resistenza ad una ridefinizione del suo ruolo sotto forma di servizio reso ai cittadini. Anche sotto questo profilo, il progetto massimalista non può prescindere da una trasformazione culturale, che però non è né semplice da avviare né facile da portare a compimento.

Il massimalismo s'imbatte poi in un ulteriore scoglio: la difficoltà di delineare un progetto credibile di superamento del capitalismo (almeno nella sua versione neoliberista) nel rispetto dell'economia di mercato. Sulla carta, il progetto non è assurdo perché, come ho detto prima, il nesso tra mercato e capitalismo è di ordine storico. Il mercato, in sé e per sé, è solo un ambito di contrattazione ove avvengono scambi tra venditori e acquirenti. Esso richiede naturalmente che si dia qualcosa da scambiare, quindi una produzione. Nulla vieta di pensare ad un'organizzazione produttiva cooperativistica, che attinge capitali attraverso un'azionariato popolare diffuso. Un sistema produttivo cooperativistico alimentato da un'azionariato popolare non ha nulla a che vedere con la collettivizzazione dei mezzi di produzione, anche se esso comporta un controllo dell'economia da parte della società, vale a dire dei cittadini nel duplice ruolo di produttori e d'investitori. Allo Stato resterebbero naturalmente, oltre alla difesa, alla tutela dell'ambiente, ai servizi socio-assistenziali e alla ricerca, funzioni di coordinamento dell'attività economica.

Il problema è che un cambiamento del genere richiederebbe, oltre che un lungo periodo, una trasformazione culturale di grande portata. I cittadini, infatti, dovrebbero accettare una crescita più moderata rispetto quella assicurata, sia pure ciclicamente, dal capitalismo, una distribuzione più equa delle risorse, un tenore di vita più austero. Di una trasformazione del genere, che comporterebbe un cambiamento radicale della mentalità e della visione del mondo, non si vede neppure l'ombra all'orizzonte, tranne che non si assumono come indizi del tutto inconsapevoli di protesta contro il sistema i sintomi da stress che ormai pervadono quasi la metà della popolazione occidentale.

C'è da chiedersi poi se uno stato nazionale che intraprendesse la via ardita della realizzazione di un progetto di riformismo "rivoluzionario" (che è l'unica possibile traduzione moderna del massimalismo) potrebbe farcela da solo. Una prospettiva del genere è altamente improbabile, dato che il capitalismo ha assunto ormai una configurazione globale e un potere che, in virtù della libertà di movimento dei capitali, condiziona la politica economica di qualunque nazione.

3.

Che significa in pratica tutto questo? Né più né meno che le due "anime" storiche del socialismo, anziché contrapporsi frontalmente, con il rischio di una lacerazione che toglie ad esse credito agli occhi degli elettori, dovrebbero confluire in un progetto comune rispettoso della loro diversità o, meglio, della loro diversa funzione. Gestire l'esistente, accettando con un certo realismo lo status quo, vale a dire la connivenza della maggioranza silenziosa con il capitalismo, e proponendosi di attenuare gli squilibri sociali prodotti dal centro-destra, non è affatto incompatibile con il mantenimento di una tensione utopistica rivolta verso un modello di società orientato a superare un sistema economico che, negli ultimi quindici anni, ha fornito le prove definitive della sua intrinseca tendenza all'iniquità e della sua pericolosità sul piano mondiale. Nello stesso tempo, quella tensione non dovrebbe riproporsi sterilmente nei termini di petizioni di principio (pace, libertà, giustizia sociale), bensì sotto forma di un progetto culturale di lunga durata mirante ad allargare le coscienze dei cittadini, a fornire ad esse gli strumenti per analizzare la complessità del mondo contemporaneo e a promuovere l'intuizione della necessità di superare la logica dell'interesse particolare al fine di porre il mondo al riparo da una catastrofe. Per giungere a questo compromesso, il realismo riformista non dovrebbe rinunciare al progetto di un altro mondo possibile - più equo, equilibrato, consapevole e umano - e l'utopismo massimalista dovrebbe rinunciare a forzare i tempi della storia in nome del fatto che i cambiamenti rivoluzionari non possono ormai realizzarsi che in conseguenza di trasformazioni culturali di vasta portata della mentalità collettiva.

Se è vero che gli uomini fanno la storia, il presente va vissuto non solo in rapporto allo status quo, bensì anche come una realtà che contiene un insieme di possibili sviluppi che non vanno predeterminati. Nello stesso tempo, occorre tenere conto che esso, particolarmente a livello di mentalità, è fortemente vincolato all'inerzia del passato, che comporta la naturalizzazione delle ideologie. Per favorire lo sviluppo nella direzione di un mondo fatto a misura d'uomo, non si può rinunciare a governare il presente, ma non si deve neppure rinunciare a una tensione progettuale orientata ad un cambiamento graduale ma radicale.

Giugno 2004